di Redazione Laputa
In questi giorni di richiamo alla responsabilità per tutelare la salute pubblica, tante sono le questioni che hanno interessato l’opinione pubblica e tante le questioni emerse, che stanno emergendo o che emergeranno nei prossimi tempi. Un’associazione come la nostra che fa della riflessione sulle relazioni il centro di tutte le sue attività non può che interrogarsi sullo stato delle cose e sulle prospettive che la situazione attuale può aprire rispetto al ritorno alla normalità.
Ci troviamo ora nella condizione in cui l’unico strumento efficace per tutelare la collettività è il richiamo all’isolamento. Va però riconosciuto che questo richiamo non può non tenere conto di un tessuto sociale già compromesso e sfilacciato e che quindi richiede una particolare cura proprio laddove l’isolamento è una condizione di sofferenza pregressa. Essendo una situazione complessa sono ovviamente molti i livelli di analisi, noi vorremmo prenderne in considerazione almeno 3: il rapporto tra isolamento e fragilità, le dinamiche del controllo sociale e la questione dell’informazione.
Partendo da quest’ultimo ci sembra necessario sottolineare, come molti hanno fatto in questi giorni, purtroppo in modo ondivago, il ruolo dei mezzi di informazione nella percezione del pericolo. I giornali hanno opportunisticamente cavalcato inizialmente l’onda del sensazionalismo morboso, scatenando un generale senso di tensione crescente, per passare poi ad un atteggiamento esageratamente rassicurante, dai toni paternalistici, incapaci in entrambi i casi di fornire una corretta e necessaria informazione intesa come strumento di autonomia di pensiero, preferendo trattare il fenomeno tramite il controllo emotivo collettivo, senza fornire gli strumenti utili ad una rielaborazione individuale della situazione. Questo fenomeno, piuttosto diffuso, ma che vede anche delle preziose eccezioni, trova facile sponda in un contesto in cui si è disabituati a guardare all’informazione come a un servizio di pubblica utilità, con una responsabilità sociale ben definita e parte di un sistema complesso che chiede all’individuo capacità di interpretazione. A lungo ci si è scagliati contro l’informazione faziosa e si è andati alla ricerca di “informazione” oggettiva, dimenticando che di per sé essa non può esistere, e che assumere come verità una interpretazione è il modo più immediato per dare adito alla menzogna. Con il tempo, l’etica giornalistica in troppi casi ha ceduto il passo, fino alla più inestricabile confusione tra opinione e fatto. Complici la diffusione delle testate online, il cambiamento della velocità dell’informazione e la diffusione dei social network, molte testate giornalistiche hanno prediletto il ruolo di cassa di risonanza per notizie da potersi sbandierare come “oggettive” proprio perché scarnificate. Anche solo la scelta delle informazioni da dare è una fondamentale chiave interpretativa a cui i giornali hanno in larga misura rinunciato (per non dire dei giornali sensazionalistici che fanno dello scandalo, della violenza esplicita e della volgarità il proprio punto di forza attirando plausi o riprovazione ma ottenendo in larga misura pubblicità gratuita e uno spazio immeritato nel dibattito pubblico). L’altra faccia della medaglia riguarda gli strumenti propri del pubblico a cui le testate giornalistiche si rivolgono. Non ci sembra corretto usare l’etichetta di “analfabetismo di ritorno” perché inscatola, spesso con un intento colpevolizzante o giudicante, una serie di difficoltà ormai condivise nella lettura della realtà. Ci limiteremo a dire che in un paese che ha sistematicamente depotenziato le proprie strutture di formazione ed educazione, la diffusione dell’informazione e la gestione dell’opinione pubblica diventano questioni particolarmente delicate e a cui andrebbe rivolta un’attenzione diffusa e capillare, perché il rischio di manipolazione sempre molto concreto. In questo caso ci preme di più puntare l’attenzione su quanti vivono in condizioni di marginalità e disagio, persone magari anche istruite, con un background che permetterebbe loro potenzialmente di interpretare la realtà in modo più costruttivo, evitando stati di ansia e stress eccessivi, strappi e isolamenti. Rispetto a queste realtà non è tanto la situazione contingente a creare un problema quanto il clima di allarme costante, che ha agito nei confronti di molti erodendo pian piano la fiducia nel sistema e nelle proprie percezioni, creando una paura generalizzata e facendo leva sulle fragilità. È quindi evidente che il cambiamento, se può esserci, dovrà essere radicale, non umorale e sistematico. Non si può perpetrare una dinamica di continuo allarmismo e poi indignarsi davanti all’accanimento morboso nei confronti di numeri o statistiche. Questo tipo di gestione dei conflitti sociali crea inevitabilmente escalation e contrapposizione tra posizioni maggioritarie e minoritarie e ad essere sminuite sono spesso le posizioni di chi più in quel momento è in difficoltà o di chi semplicemente non si ritrova nello stato emotivo della maggioranza.
In questo senso – sì – ci preme riprendere il discorso del depotenziamento, messo in atto a livello istituzionale, delle strutture che si occupano di istruzione e di educazione. Formare bambini, ragazzi e poi giovani adulti capaci di pensiero autonomo e di solidità dovrebbe essere obiettivo fondamentale del percorso educativo di ogni individuo. Purtroppo, il graduale impoverimento messo in atto ai danni della scuola ha generato anche in questo caso un perfetto riflesso nell’indebolimento della rete sociale, creando una sinergia deleteria. La scuola ha meno strumenti e anche quando con grande dedizione e passione quegli strumenti sono messi a frutto la mancanza di una comunità in cui sperimentare quanto appreso non permette ai bambini o ai ragazzi di interiorizzare il sapere. A causa di una fittizia separazione tra istruzione ed esperienza, e tra sapere e relazione, i ragazzi faticano in modo spesso solitario per dotarsi di strumenti adatti all’interpretazione della realtà. Non si può “imparare” la filosofia se non si è abituati alla ricchezza che nasce dalla discussione o dal contraddittorio, non si può “sapere” la storia e non avere relazioni reali con persone di altre generazioni, o relazioni che semplicemente si evolvono e cambiano con il tempo. Allo stesso tempo è difficile essere autonomi se gli strumenti linguistici per esprimere il proprio pensiero sono limitati, è difficile se non si sa interpretare il rischio e gestire la paura costruire la propria identità su una solidità che non divenga chiusura e immobilismo, ma continua evoluzione. Con queste premesse c’è da interrogarsi su quale sia il segnale che i ragazzi stanno ricevendo dalla gestione di questa emergenza.
Lo stesso discorso è applicabile a quanti in situazioni di disagio si trovano a sperimentare tanto l’inefficienza o il disinteresse delle strutture, quanto la mancanza di una rete più ampia, quando c’è, rispetto ai soli membri del nucleo familiare, che si trovano anch’essi a sperimentare spesso una situazione di abbandono, giustificata dall’apparente sufficienza di un’appartenenza nucleare.
In questo momento di emergenza affiorano chiaramente quali siano le priorità percepite dalle istituzioni e quali invece le omissioni. Tra le norme emanate, tra le situazioni di estrema necessità individuate, non si fa cenno, e non sarebbe possibile altrimenti mancando a monte risorse o strutture in grado di farsene carico, a persone in condizione di povertà estrema, o con condizioni psicologiche o psichiatriche pregresse, o a chi vive situazioni di violenza domestica. L’aver trascurato, eliminato o non rinnovato un sistema assistenziale che fosse anche di supporto e reintegro emerge ora come problema nodale, tanto quanto la crisi delle strutture sanitarie e di quelle educative. Anche l’inevitabile evidenza di uno stato sociale indebolito e che fatica a far fronte all’emergenza nonostante l’impegno di molti, ha favorito il diffondersi di ansia generalizzata e tensione sottesa. Non aiuta vedere la tutela delle norme affidata all’arbitrio delle forze dell’ordine che subiscono probabilmente lo stesso regime di stress e paura che ha preso possesso del territorio, e che agiscono spesso senza un riferimento chiaro. Probabilmente anche le forze dell’ordine risentono di un generale spaesamento e i singoli si vedono abbandonati nell’esercizio di questo difficile compito che nelle mani dei migliori diventa frustrante e potenzialmente pericoloso, nelle mani di quanti invece sono incapaci di gestire il ruolo dà adito ad atteggiamenti aggressivi che non fanno che aumentare la sensazione di insicurezza e instabilità generali. Questo stato prolungato di sfiducia, paura e ansia, può avere strascichi anche molto lunghi e dobbiamo essere pronti, come società, e come singoli e gruppi di azione, a farcene carico. E anche per questo ora, come singoli cittadini è invece importante, porre l’attenzione sulle implicazioni che questo tempo particolare porta con sé, cercando di preservare l’apertura mentale necessaria per leggere ogni atteggiamento e reazione in modo accogliente e non giudicante.

Non si può negare che la solitudine sia una condizione che sempre più spesso gli individui si trovano ad affrontare. Persone sole o che vivono relazioni che non limitano la sensazione di solitudine sono purtroppo sempre più comuni, anche in risposta a una costante spinta all’individualismo propria delle società occidentali e capitaliste. In questo momento anche a causa di questa frammentarietà delle relazioni, la necessità resta l’isolamento, la distanza, la lontananza da chi potrebbe “infettare o essere infettato” (fino a rappresentare nelle percezioni un link epidemiologico e non più una persona).
Ma dall’andamento del sentimento comune di questi giorni risulta evidente che non c’è niente come il richiamo a una sincera responsabilità di comunità per rendere efficiente il controllo sociale. Ed ecco però anche qui la necessità quantomeno di osservare il risvolto negativo. Se a sopperire alla mancanza di una rete sociale reale interviene una comunità virtuale, questa senza dubbio ha lo scopo di allontanare lo spettro della solitudine, e però rivela come il senso di appartenenza possa uno strumento di controllo potentissimo. Così gli hashtag ripetuti all’infinito divengono – come sono sempre stati – un simbolo dell’appartenenza a un gruppo, le parole si ripropongono sempre uguali a creare un gergo condiviso, si vivono esperienze condivise volte al coinvolgimento emotivo, si trovano eroi e punti di riferimento a cui aspirare. E se da un lato vivere l’isolamento con una connotazione altruistica limita i danni da stress post traumatico molto spesso legati a situazioni di questo tipo, (secondo una ricerca del King’s College sugli effetti della quarantena sulla salute psichica delle persone) dall’altro lato tende a creare dinamiche di potere e violenza capaci, forse, di procurare altrettanti danni. Una comunità che parli con una sola voce avrà una grande predisposizione a creare dei “fuoriusciti”, a stabilire verità condivise univoche che non permettono altre possibilità. Così tanto gli appelli a restare a casa, quanto gli appelli all’ottimismo avranno l’inevitabile conseguenza di generare “mostri”. Mostro è colui che non può rispettare il comandamento di stare a casa, perché casa non è un luogo sicuro, perché per la propria salute psicofisica è costretto ad uscire, perché una casa non la possiede, o perché non può starci. Mostro d’altro canto è anche chi non risponde al coinvolgimento emotivo, chi non sa come superare la paura o l’inazione e non riesce a credere che tutto andrà bene, nonostante venga ripetuto da ogni dove. Mostro è infine chi preferisce la solitudine, chi non prende parte ai riti collettivi, chi per limiti personali, di età o di condizione non può essere parte di una comunità virtuale, chi vive una famiglia inusuale che non viene prevista dalle regole, chi continua a fare la propria parte al di fuori dalle mura domestiche.
Oltre a creare mostri il meccanismo sociale, in assenza di mezzi di informazioni autorevoli e di una formazione solida degli individui, crea anche degli imperativi categorici che come accaduto in questi giorni rischiano di dirottare una sana percezione della realtà. E così negli ultimi giorni i giornali sono dovuti intervenire per mitigare le posizioni oltranziste che si sono susseguite sui social, cha hanno in molti casi sdoganato atteggiamenti aggressivi nelle strade, ribadendo ad esempio il “diritto alla passeggiata” o riportando le note informative rilasciate dal governo in materia di spostamenti e viaggi. Ma non stupirebbe se tra qualche giorno la tendenza fosse di nuovo invertita e fosse nuovamente necessario l’appello a una più attenta osservanza delle regole o forse la memoria collettiva sarà risvegliata da questo immobilismo forzato e non sarà più così semplice obliare parole o accadimenti da un giorno all’altro.
Rimane da vedere se alla prova della pandemia la nostra società saprà risultare più realmente solidale, pronta per vivere una comunità nuova capace di evolversi e mutare, o se da questa comunità forzata ed escludente non si uscirà più soli e spaventati pronti a seguire una voce che autoritariamente ci promette di difenderci da ciò che fa paura.
Attualmente non abbiamo purtroppo potere sulla situazione sanitaria, ma ciò che è e sarà del clima relazionale, politico e sociale è invece saldamente nelle nostre mani. Nelle strade non si vedono solo sguardi spaventati o diffidenti. C’è anche un ritorno ad una familiarità che negli ultimi anni era passata di moda. Passeggiando è più facile che si scambi un saluto con uno sconosciuto incontrato per strada. Non avere un luogo predisposto all’incontro dove poter andare potrebbe favorire un tipo di socialità diversa, più spontanea meno legata a standard vuoti. L’opportunità di riscoprire relazioni intime potrebbe dare nuova forma alla socialità futura. Dobbiamo solo decidere in ogni momento da che parte vogliamo andare e proporre a noi stessi dei piccoli cambiamenti o delle piccole attenzioni.
– Teniamo presente ciò che sappiamo per contrastare luoghi comuni e paure
– Studiamo e cerchiamo ciò che non conosciamo: prima dell’informazione la storia, prima dell’attualità la letteratura, la scienza, la filosofia.
– Proviamo ad individuare quali sono gli atteggiamenti, le parole, le situazioni che ci destabilizzano personalmente.
– Non abbiamo timore di vedere o creare delle eccezioni. Per una persona con una situazione psicologica fragile probabilmente l’isolamento non è una soluzione, forse neanche “l’obbligo” di rimanere in casa. Per un bambino correre e giocare è una necessità. Per un anziano poter andare in un negozio potrebbe essere l’unico momento di necessaria socialità.
– Evitiamo innanzitutto lo stigma e la generalizzazione, in un momento di grande fragilità collettiva molto più che normalmente. Prendere questa abitudine in un momento particolare potrebbe essere un buon allenamento per riportare queste buone pratiche anche quando la “normalità” si sarà ristabilita.
– Proviamo a chiederci: chi può sentirsi escluso per ciò che ho detto, per le parole che ho scritto o per l’articolo che ho girato? Chi viene additato come colpevole? Chi può essere messo in difficoltà? Chi viene criminalizzato? È un esercizio totalizzante che può essere percepito come eccessivo, ma che in realtà è normale quando viene applicato alle relazioni più intime.
– Proviamo a sfruttare questo tempo mettendo al centro l’altro, cercando di capire le sue paure, le sue necessità, i suoi limiti. Decentrarsi è anche un ottimo modo per affrontare e ridimensionare le paure.
– Prendiamo nota delle grandi e piccole mancanze, da quelle strutturali a quelle caratteriali e ricominciamo da lì a costruire.
– Ricostruiamo, una scuola capace di educare e non solo di istruire, uno Stato sociale capace di leggere i bisogni e con le risorse adatte a rispondervi, la nostra idea di relazioni intime, un tessuto sociale che ci porti fuori da noi, che ci faccia sentire responsabili per la collettività, di supporto ai singoli che di quella collettività fanno parte, che ci faccia sentire accolti e aperti all’accoglienza anche di quanti non hanno ora, forse non hanno mai avuto e magari non avranno mai, una collocazione precisa e definita all’interno della società.
Non lanciamo hashtag, ma raccontiamo, pensiamo, scriviamo, non per chiudere un cerchio di costrizione, ma per camminare sul bordo e qua e là confonderlo con il terreno circostante.
Per le foto: © Paola Del Zoppo 2019, 2020.