Ogni volta che scoppia un caso sui social che in qualche modo riguarda la nostra sfera di azione ci chiediamo se e come poter intervenire come Associazione. Tra ieri e oggi in molte “bolle” è comparso il riferimento ad un articolo riguardo il mercato del libro e le nuove figure che in questo stanno agendo a vario titolo. Ogni bolla o camera d’eco riportava l’episodio in ottiche e stili appropriati al target, alcuni in modo decisamente aggressivo, altri in modo da allargare la discussione e renderla densa di contenuti. Non sarebbe in linea con lo stile di Laputa entrare nelle singole questioni e alimentare semplicemente il caso schierandoci con una delle fazioni presenti, ma parlando di dibattito culturale, ci sentiamo in dovere di esprimere la nostra posizione. Innanzitutto, che cos’è per noi il dibattito culturale? Parlare di libri non basta a creare dibattito culturale a nostro avviso. Il chi e il come è effettivamente ugualmente importante. L’Accademia così fortemente stigmatizzata, e in modo diverso di questi tempi dovrebbe essere il seme del dibattito culturale. Dovrebbe essere il centro dinamico dell’evoluzione culturale, e forse lo è ma non è questo ciò che viene percepito all’esterno. E allora chi è che anima il dibattito culturale? A quale titolo? Con quale autorevolezza? Cosa rende un recensore di un giornale, non un critico letterario, autorevole? E’ la sua conoscenza della materia? E allora perché i giornali non assumono solo critici letterari per questo ruolo? Sarebbe a rigor di logica i più qualificati. I più autorevoli. Se non è per la loro competenza allora l’autorevolezza è data da altro, da dinamiche di potere spesso, che si autoperpetuano. Critico e giornalista possono essere ovviamente due ruoli diversi e se il primo dovrebbe seguire logiche letterarie, il secondo potrà seguire un principio diverso in base alla propria collocazione. Sarà il messaggio a guidare il giornalista, il valore sociale e politico dell’opera? Il suo posizionamento rispetto a quello che ritiene essere il ruolo della cultura nella società? Questo rende effettivamente un giornalista culturale autorevole. Chi si occupa di promozione di libri e/o di recensioni spesso non è neanche un giornalista culturale e questo complica la questione. Per fare un esempio davvero banale: come mai la trasmissione di Fabio Fazio “sposta” più copie di qualunque altra rubrica culturale in Italia? Nessuno comunque mette in dubbio o ridicolizza l’autorevolezza di Fabio Fazio in materia, eppure la televisione può essere un mezzo tanto superficiale quanto i social.
Questo ci riporta però al come viene condotto il dibattito culturale. In Italia in questi ultimi anni (per essere ottimisti) è in atto un processo di sistematico svilimento di figure a cui sarebbe attribuibile un certo grado di autorevolezza, insegnanti, ricercatori, accademici, giornalisti stessi. E questo in virtù di un egalitarismo forzato che non rispetta le competenze di nessuno e che rende quindi chi promuove libri sui social autorevole tanto quanto un giornalista culturale. Un egalitarismo che quindi sostituisce in sostanza figure potenzialmente autorevoli con figure autoritarie. Fabio Fazio, non ce ne voglia se continuiamo a prenderlo ad esempio, è divenuto senza dubbio un’autorità senza che questa sia giustificata da alcun tipo di autorevolezza se non quella decretata dal successo, nessuno lo segue in virtù delle sue qualificazioni di studio o di altro che esuli dalla trasmissione stessa e dal suo essere Fabio Fazio. E’ un problema questo, a monte?
E questo è forse il nocciolo della questione. Il dibattito culturale, come quello politico, si ritrova svuotato di contenuti, sostituiti da uno straripante culto della personalità. E quindi se di un libro parla un certo qualcuno sarà il libro che “tutti” devono aver letto per essere nel giro. Non importa il libro, il contenuto, il suo valore letterario o sociale o politico. Conta che quel qualcuno ne abbia parlato. Almeno fino al cambio della marea. Cosa cambia tra Fazio e altri “blogger”, “influencer”, postatori assidui di opinioni e dispensatori di giudizi su dove sta andando la letteratura, di chi sceglie l’aggressività verbale per difendere una posizione o guadagnare terreno? Ci sono strade migliori, secondo noi. Si leggeva ieri di understatement e questo è forse il problema maggiore di chi parla di cultura in generale e di libri in particolar modo. Tutto il dibattito attorno ai libri è viziato dall’idea che in Italia non si legge abbastanza e che il mercato è in contrazione e che è importante che si esca dalle “torri d’avorio” per poter parlare alla gente. In questa falsa vulgata, oltre ad emergere tutto il senso di una rigida quanto insensata gerarchia (si porta la cultura alla plebe? Come se comprendere un libro o parlare di libri fosse davvero qualcosa che ghettizza e crea gerarchie e non una cosa che naturalmente unisce. Come se ci fosse bisogno di un messia che scenda tra le folle per educarle.) Si pongono così le basi affinché chi parla di libri lo faccia sempre come se fosse una cosa scomoda. Quindi ci troviamo con le autorità che portano l’annuncio alle folle, e con le figure potenzialmente autorevoli a cui stato fatto credere che il loro lavoro è pedante, inutile che allontana le persone e che comunque in ultima analisi non vende.
In questo panorama emerge la discussione di ieri e oggi, che ripropone una dinamica purtroppo fin troppo sclerotizzata, accendendo un dibattito quasi sempre irrispettoso e aggressivo, proprio in virtù dello stesso culto della personalità di cui sopra. Come Laputa non possiamo che ampliare lo sguardo per uscire dai particolarismi che fomentano violenze più o meno evidenti, e riportare il discorso su un livello di trasformazione sistemica. Si potrebbe ripartire dando spazio a opinioni scientificamente supportate, a chi fanno del centro del proprio discorso l’oggetto e non l’individuo, si potrebbe sempre partecipare al dibattito in ottica di de-escalation, che è tanto fuori moda oggi, quanto più è necessaria. Soprattutto chi del dibattito culturale vuole essere animatore onesto, dovrebbe sempre chiedersi quale sia il centro del discorso. E’ un’idea o una persona? Se è un’idea quale è? Di cosa si sta discutendo? Perché purtroppo quando qualcuno è al centro della discussione è inevitabile che si creino personalismi e si sfoci nell’aggressione e nel sistema “sacrale” parteggiare o non parteggiare vuol dire, nell’immaginario, godere o non godere di vantaggi futuri. Siamo capaci di fare un passo indietro, chiarire il contesto e agire su quello e non sugli attori? Questa a nostro avviso è la sfida vera, perché ad ogni discussione ne segue un’altra, e per cambiare pian piano il contesto è fondamentale iniziare adeguando i mezzi ai fini.