Laputa ha investito molto, perché crede molto nei progetti di educazione diffusa. È importante innanzitutto definire cosa si intende per educazione diffusa e in che modo si declina nel nostro modo di agire. Parlando di educazione diffusa si fa infatti riferimento a un manifesto che ha formalizzato un movimento che insiste nell’educazione come atto politico primario e per questo ne promuove la diffusione al di fuori dei luoghi istituzionali. Secondo il manifesto, una società in cui giovani e adulti siano forzati a vivere realtà diverse è una società che disperde le proprie energie, non le razionalizza e si apre alla mercificazione delle relazioni. Inoltre, mantenere diviso il contesto educativo dal resto della vita dei giovani crea uno scollamento nocivo sia per i ragazzi che per gli adulti. Se “la città” non è un contesto educativo, l’adulto fuori dalle aule della scuola sarà portato a non sentire la responsabilità nei confronti dei ragazzi che la vivono e a mancare quindi al proprio ruolo di adulto come modello. Se gli adulti educanti sono portati sempre a ricoprire un ruolo e mai a intessere una relazione vera, ogni gesto educante sarà inevitabilmente posticcio e rischia di rimanere scollato dalla vita del ragazzo e dalla sua crescita, anche emotiva. Se le attività proposte ai ragazzi non partono da esperienze reali, se non trovano un aggancio con un vissuto esperienziale positivo, se non hanno cura della globalità della persona, ma si occupano di volta in volta solo di una dimensione come fosse scollegata e non organica con tutto il resto, se ripropongono costantemente lo stesso modello, lo stesso ambiente e le stesse dinamiche, l’azione prodotta dall’adulto sarà sempre circostanziale e mai davvero educante. Un’azione che non parta dall’educando, che non cerchi in lui risposte, non è un’azione educativa nel senso proprio del termine (non trae fuori dai ragazzi) e non insegna neanche (non lascia il segno nei ragazzi) mira semplicemente alla creazione di un modello conforme. Le risposte saranno finte, conformi al modello proposto, modello che non tenendo conto della persona come sistema unico e complesso non può adattarsi a questo, coglierne le esigenze né esaltarne le potenzialità. A partire da questo panorama l’idea di quanti si occupano di educazione diffusa è quella di offrire ai ragazzi spazi e modi non conformi, grazie ai quali abbiano la libertà di scoprirsi, sperimentarsi e immaginarsi diversi, “più grandi”.
Per noi di Laputa, ma non solo, questa idea si declina in particolar modo in senso di diffusione comunitaria dell’educazione.
È innegabile che le scuole siano interlocutore privilegiato perché sono il luogo in cui più facilmente ragazzi e adulti sono posti in dialogo. Poter dialogare con un gruppo già formato all’interno di luoghi di educazione istituzionale, non significa però adeguarsi ad uno stile didattico e relazionale canonico e predeterminato.
L’educazione è un atto comunitario che coinvolge tanto gli adulti quanto i ragazzi e anzi si realizza pienamente solo nell’instaurarsi di una relazione proficua tra questi. Proficua è ad esempio una relazione che sappia riconoscere il valore formativo del conflitto, che non lo tema, e sia in grado quindi di gestirlo in chiave costruttiva e positiva. Attraverso un conflitto gestito in senso nonviolento (con ottica cioè non di sopraffazione, non di vincita dell’uno sull’altro) tutti gli attori coinvolti hanno modo di sperimentarsi e crescere nella relazione
In sintesi, riteniamo che non possa esistere un percorso educativo che non preveda l’interazione e la relazione tra ragazzi e tra adulti e ragazzi. Per questo creare un percorso educativo vuol dire creare un percorso necessariamente adatto a entrambi. Un percorso ritagliato su ragazzi o studenti che non sappia interrogare gli insegnanti o gli adulti coinvolti nella dinamica sarà molto probabilmente un percorso immaginato partendo da una visione gerarchica della relazione e da un’idea della società altrettanto gerarchizzata. E smantellare la gerarchia nelle relazioni è invece per noi elemento essenziale.
I nostri interventi partono spesso dal riconoscimento delle dinamiche di violenza ed è innegabile che la violenza più diffusa sia quella legata alla percezione di categorie più o meno importanti, più o meno di valore, con più o meno potere. L’atteggiamento del “bullo” di colui cioè che cerca di prevalere sull’altro sminuendolo, svilendo i suoi risultati e le sue ambizioni, minando la sua autostima attraverso un continuo processo di invalidazione, molto più spesso che con la violenza fisica, è l’atteggiamento di chi vede le relazioni funzionali al raggiungimento al mantenimento di una posizione di potere. Il potere autoritario, e quindi violento, non può prescindere dalla creazione e dal mantenimento di categorie subalterne e categorie dominanti che ne giustificano l’esistenza stessa. Imparare a riconoscere chi ha potere su chi, o chi pretende di averlo è il primo passo del percorso di riconoscimento della violenza. È facile riconoscere la violenza spudorata, del fisicamente più forte o di chi per ruolo ha una posizione di vantaggio, meno facile è riconoscere la violenza lì dove i parametri socialmente stabiliti (categorie) non sono rispettati. È più difficile riconoscere il “bullo” quando assume le fattezze del bravo ragazzo o ancor di più quelle della brava ragazza, lo stesso vale quando sono un uomo o una donna rispettabili ad assumere atteggiamenti violenti.
Il rapporto con le storie, con le parole, con le diverse forme di narrazione stimola ragazzi e adulti a guardare più a fondo, a interpretare e a interrogarsi e crea un linguaggio comune che è basilare alla formazione di relazioni autentiche. Ed è proprio l’autenticità a fare la differenza. Se l’aula diventa un luogo di dialogo paritario capace di trascendere i ruoli, l’aula stessa si trasforma in “piazza”, in laboratorio e in esperienza.
I ragazzi sperimentano un modo diverso di dialogare con l’adulto, con un gioco delle parti che diventa davvero gioco, e che come tale ha uno scopo comune e delle regole condivise e come ogni bel gioco mette in moto ragionamenti, stimola le relazioni e diverte. L’autenticità sta anche in questo e forse soprattutto in questo. Riconoscere nell’adulto la passione e il divertimento per il ragazzo è rivoluzionario: l’adulto non è con lui perché quello è il suo dovere, ma perché stare con lui gli piace, gli sta a cuore e questo per banale che sia fa davvero la differenza.
E confrontarsi con una dimensione relazionale più autentica fa decisamente la differenza anche per gli adulti. Riconoscere ad esempio che le dinamiche di violenza vissute dai ragazzi sono le stesse che coinvolgono anche gli adulti, è un passo fondamentale per riportare su un piano paritario la relazione. In questo senso è stato rivelatore per noi poter sperimentare con gli insegnanti lo stesso percorso proposto ai ragazzi e leggere nelle loro risposte e nei loro timori gli stessi pensieri e gli stessi freni dei ragazzi. Insegnanti e ragazzi in contesti separati, hanno letto le stesse storie, si sono lasciati coinvolgere negli stessi giochi e hanno risposto agli stimoli con la stessa diffidenza iniziale che presto si è trasformata in entusiasmo. E ci è apparso evidente come sia la spersonalizzazione del rapporto a causare l’escalation di una violenza sistemica all’interno della scuola e delle comunità e dei gruppi di educazione.
L’impressione è che il gioco dei ruoli abbia smesso di essere vissuto come un gioco e sia divenuto reale e quindi è forse il momento di ripensarne le regole.
Ripartire da un basilare senso di appartenenza alla comunità ci sembra fondamentale ed è necessariamente l’adulto a dover fare il percorso. Il ragazzo che ho davanti deve essere una mia responsabilità e, a prescindere dalla mia posizione e dal mio ruolo, deve starmi a cuore perché anche nell’indifferenza e nell’irresponsabilità per quel ragazzo sarò modello. Questo discorso tanto banale è però fondamentale.
Forse in un tipo di società diversa formalizzare questi bisogni sarebbe superfluo. In una società che favorisce relazioni spontanee, che rispetta i tempi e gli spazi di ciascuno o che comunque non ne definisce l’adeguatezza in modo invasivo le esperienze si diversificano e ciascuno ha la possibilità di sperimentarsi nel modo più adeguato a sé. Ma in un momento di rigido controllo orientato al profitto, le relazioni diventano inevitabilmente ciò che inceppa l’ingranaggio e che va sistematicamente debellato.
La relazione autentica è capace di liberare, generare gratuità, autonomia di pensiero e unicità, per questo è rivoluzionaria e per questo è il centro del nostro agire.
Noi partiamo dagli strumenti che ci sono propri: le narrazioni, i racconti, i fumetti, la poesia, ogni forma di espressione in grado di far riappropriare l’individuo di uno spazio di libertà che genera realtà diverse e quanto più ibride, indefinite e “mostruose” saranno queste realtà più ci sarà spazio per le domande, per il dialogo e per l’incontro.